Marx at the Margins. On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western Societies

Kevin B. Anderson

Summary: For the debate over Ukraine, the BLOG DEGLI STORICI DEL FRIULI
OCCIDENTALE has published Willer Montefusco’s translation of excerpts of the 2016
introduction to Anderson’s book, here http://www.storiastoriepn.it/marx-at-the-margins-
on-nationalism-ethnicity-and-non-western-societies/

Translated by
Willer Montefusco

Prefazione

[Il libro è uscito in prima edizione nel 2010. Pubblichiamo estratti dell’introduzioen del 2016]

Nei sei anni dalla pubblicazione, la ricezione di questo libro in molti ambiti suggerisce che è probabile che sia riuscito in almeno uno dei suoi obiettivi originari: presentare Marx come pensatore profondamente interessato alle società non-occidentali e precapitalistiche in quanto tali, piuttosto che come semplici complementi alla sua teorizzazione delle moderne società capitalistiche occidentali. In questo senso forse il libro ha contribuito a neutralizzare l’opinione corrente secondo la quale Marx era fondamentalmente un pensatore eurocentrico intrappolato negli schemi ristretti del suo tempo – metà del diciannovesimo secolo – e così largamente impermeabile a temi contemporanei come razza, genere e colonialismo. Mi riferisco non solo a posizioni come quella di Edward Said e il suo celebre Orientalismo, ma anche ad altre più ampiamente filosofiche, come quella di Michel Foucault, per il quale “il marxismo esiste nel pensiero del diciannovesimo secolo come un pesce nell’acqua; cioè, non può respirare in nessun altro posto” ([1970] 1966. P. 262).

Rispondendo a queste affermazioni in Marx at the Margins, riconosco subito che alcuni scritti di Marx negli anni 1840 e nei primi 1850 mostrano forme di orientalismo ed eurocentrismo, a volte appoggiando implicitamente il colonialismo britannico in nome del progresso. Tuttavia, a mio parere, anche nei testi che possono dare un’immagine di Marx sotto questa luce, ci sono contro-movimenti dialettici, come, per esempio, nella descrizione del 1853 del colonialismo britannico come barbaro, o la sua invocazione, nello stesso anno, dell’indipendenza indiana come la soluzione dell’oppressione sociale e della stagnazione di quel paese. E, ancora più importante, Marx si era già spostato verso una posizione più anticolonialista al tempo degli scritti del 1856-58 su India e Cina, nello stesso periodo in cui discuteva il modo di produzione asiatico nei Grundrisse.

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Vorrei anche dire qualcosa sulla tradizione teorica complessiva in cui mi sono mosso e che è alla base del libro. Sebbene sia stato fortemente influenzato per molti anni dalla Scuola di Francoforte, da Georg Lukács e da Lenin in termini di dialettica, il mio principio ispiratore in questo caso proviene da un ambito leggermente diverso, dalla marxista-umanista russo-americana Raya Dunayevskaja.  Similmente, mentre sono stato influenzato fortemente dagli scritti di Frantz Fanon sulla razza, il colonialismo e la rivoluzione, di W. E. B. Du Bois, e di C. L. R. James, il mio maggior debito è verso Dunayevskaya. Avendo lavorato nella tradizione del suo umanesismo marxista per la maggior parte della mia vita, penso che sia utile dire qualcosa di più sulla sua opera nella misura in cui è connessa con Marx at the Margins.

Perciò esprimo qualche commento su 1) il contributo della Dunayevskaja alla nostra comprensione di Hegel, Marx e la dialettica, e 2) sul suo lavoro su ciò che oggi viene definita intersezionalità di razza, classe e lotta contro il capitale. Dal 1940 in avanti Dunayevskaja si è impegnata nel recupero della dialettica di Hegel per le generazioni più tarde di marxisti. Quando ha iniziato il suo lavoro, al principio lungo le orme del teorico afro-caraibico del marxismo e della cultura C. L. R. James, il concetto di marxismo hegeliano era per lo più la posizione di una piccola minoranza. Dalla sinistra accademica (prima del maccarthismo) ai partiti trotzkisti in cui Duneyevskaja lavorava,  la dialettica era in massima parte solo uno slogan, e regnava una sorta di positivismo darwinista. Le idee filosofiche erano un riflesso della realtà materiale, si diceva, e qualunque forma di idealismo correva il pericolo di riportarci all’oscurantismo religioso a, peggio, al fascismo.

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Negli altri quattro decenni la Dunayevskaya sviluppò una diversa concezione della dialettica. Primo, produsse la prima traduzione inglese delle note di Lenin su Hegel del 1914-15, all’inizio per un piccolo gruppo dentro il trotzkismo americano che includeva C. L. R. James e Grace Lee Boggs (mi occupo di questo lungamente in Anderson 1995). E sebbene la sinistra accademica ne bloccasse la pubblicazione negli Stati Uniti, utilizzò il punto di vista rivoluzionario di Lenin su Hegel come trampolino per la Scienza della logica e la Fenomenologia dello spirito. Nel 1953 scrisse le Lettere sull’Assoluto di Hegel, tra le quali aggiungeva note sulla Fenomenologia dello spirito, ancora poco discussa. Queste lettere del 1953 sfidavano le interpretazioni precedenti – da Engels in avanti – dell’Assoluto di Hegel come totalità chiusa con implicazioni conservatrici.

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Di certo, Dunayevskaya in quanto marxista rigettava i testi tardi di Hegel più conservatori, come la Filosofia del diritto, ma vedeva nei suoi primi e più astratti lavori le radici di ogni dialettica nel senso di dialettica rivoluzionaria. Inizialmente, ella sviluppò queste idee in un dialogo con Herbert Marcuse (Anderson and Rockwell 2012). Come scriveva in Philosophy and Revolution (1973), in riferimento alle opere di Hegel come la Scienza della logica, Fenomenologia dello spirito e Filosofia della mente (?), precisamente dove Hegel suona più astratto, e sembra chiudere le porte contro il movimento complessivo della storia, là lascia la linfa vitale della dialettica – la negatività assoluta – scorrere pienamente. È vero che Hegel scrive come se la risoluzione delle forze vitali opposte potessero essere vinte da un mero pensiero della trascendenza. Ma, portando le opposizioni alla loro massima logica estrema, apriva nuove vie, una nuova relazione tra teoria e pratica, che Marx rielaborò come una relazione completamente nuova tra filosofia e rivoluzione. I rivoluzionari di oggi voltano le spalle a tutto questo a loro rischio e pericolo” ([1973], 1989, pp. 31-32).

Questo, credo, rimane l’eredità per noi oggi, in un tempo in cui tanti pensatori radicali – da Negri a Habermas e da Foucault a Said, per non parlare delle correnti althusseriane più antiche o anche dei materialisti o positivisti più vecchi – sono tutti uniti nell’esortarci a evitare a ogni costo la dialettica rivoluzionaria di Hegel.

Un ulteriore aspetto del concetto di dialettica della Dunayevskaya offre un ponte diretto con i temi di Marx at the Margins. Diversamente da alcune versioni di totalità o universalità nel marxismo hegeliano, Dunayevskaja insisteva sul fatto che l’universale non necessita di particolarizzarsi per diventare un universale realmente emancipatorio piuttosto che astratto: “Il movimento dall’astratto al concreto attraverso la particolarizzazione ha bisogno di una doppia negazione. Hegel non lascia spazio alla possibilità di dimenticare la sua assoluta creatività, la forza motrice che esso rappresenta per l’intero sviluppo, per il suo potere creativo” ([1975] 1989, p. 25). Assumendo questo tipo di dialettica nella sfera della politica e della sociologia marxista, sosteneva che l’attenzione contemporanea per la razza, il colonialismo o il genere, benché in relazione con la struttura complessiva del capitalismo, non poteva essere sussunta nell’analisi del capitale e della classe, ma aveva una particolarità e una dinamica sua propria. Ancora, dagli anni 1940 in poi e ancora inizialmente seguendo C.L.R. James, Dunayevskaja esplorava specificamente il sistema di classe americano, che aveva sempre funzionato con l’elemento aggiuntivo della razza.

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Così, il lavoro della Dunayevskaja ha influenzato il mio libro in un doppio senso: a livello generale, sul piano della dialettica, e a un livello più specifico sul diretto trattamento di alcuni dei temi discussi nel libro.

Complessivamente, considero Marx at the Margins come un contributo al dibattito dei giorni nostri su Marx e la sua eredità. In un periodo in cui molti respingono Marx come eurocentrico senza speranza, come posseduto da una forma di dialettica tratta da Hegel che scarta particolarità come razza, genere e colonialismo a favore di grandiose narrazioni della globalizzazione che rendono tutto uniforme, capitale e classe. Ho cercato di sostenere che Marx è un pensatore dei nostri tempi. La sua critica al capitale, così sfumata e dialettica, e basata su studi socio-storici delle condizioni reali nei confronti di diverse società nel mondo, appartiene al nostro tempo tanto quanto al suo. 

Conclusioni

Il viaggio negli scritti di Marx su nazionalismo, razza, etnicità e società non-occidentali ha, spero, rivelato il carattere multilineare del suo progetto intellettuale complessivo, specialmente nei suoi ultimi anni. La critica di Marx al capitale, come si è mostrato, era molto più ampia di quanto si possa immaginare. Di certo, egli concentrò l’attenzione sulla relazione lavoro-capitale nell’Europa occidentale e in Nord America, ma nello stesso tempo, spese considerevole tempo ed energia nell’analisi delle società non-occidentali, come anche su temi come razza, etnicità e nazionalismo. Mentre alcuni di questi scritti mostrano una prospettiva problematicamente unilineare e, occasionalmente, tracce di etnocentrismo, la traiettoria complessiva degli scritti di Marx su questi temi si muove in una direzione diversa. La discussione precedente ha mostrato che Marx ha creato una teoria multilineare e non riduzionista della storia, che ha analizzato la complessità e le differenze delle società non occidentali e rifiutato di attenersi a un modello unico di sviluppo o di rivoluzione.

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La maggior parte dei critici ha mancato di notare che dal 1853 la prospettiva di Marx sull’Asia aveva cominciato a spostarsi dal punto di vista del Manifesto, diventando più sottile, più dialettica. Poiché negli articoli del 1853 per il Tribune scrisse anche che  un’India modernizzata avrebbe trovato una via per uscire dal colonialismo, ora descritto come una forma di “barbarie”. Presto o tardi, argomentava, la fine del colonialismo in India sarebbe avvenuta o attraverso l’aiuto della classe lavoratrice inglese o con la formazione di un movimento indipendentista indiano. Studiosi indiani come Irfan Habib hanno mostrato che questo aspetto del Marx del 1856-57, il lato anticolonialista del pensiero di Marx, divenne più marcato, posto che, anche nel Tribune, sosteneva la resistenza cinese contro gli inglesi durante la seconda guerra dell’oppio e la rivolta Sepoy in India. In questo periodo egli cominciò a incorporare alcune delle nuove idee sull’India in una delle sue grandi opere teoriche, i Grundrisse (1857-58). In questo trattato embrionale sulla critica dell’economia politica, si lanciò in una vera e propria teoria multilineare della storia, in cui le società asiatiche si sarebbero sviluppate lungo percorsi diversi da quelli dei successivi modi di produzione che aveva delineato per l’Europa occidentale – greco-romano antico, feudale e capitalistico. Inoltre, paragonava e opponeva le relazioni di proprietà comune, come anche il modo di produzione comunitario più ampio, della società romana antica a quelle dell’India a lui contemporanea. Laddove nel 1853 vedeva le forme sociali comunitarie del villaggio indiano come sostegno del dispotismo, ora sottolineava il fatto che queste forme potevano essere o democratiche o dispotiche.

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Comunque, sarebbe del tutto erroneo pensare al Marx di questo periodo occupato solo con le relazioni di capitale e con la lotta di classe, escludendo nazionalismo, razza ed etnicità. Nel periodo in cui stava completando il Capitale, era anche coinvolto nella dialettica di razza e classe nei lunghi anni della Guerra Civile americana (1861-65).  Sebbene il Nord fosse una società capitalistica, Marx si gettava anima e corpo nella causa antischiavista, appoggiando criticamente il governo Lincoln contro la Confederazione. Negli scritti sulla Guerra Civile metteva in relazione razza e classe in molti modi importanti. Primo, sosteneva che il razzismo bianco aveva tenuto a bada il lavoro in generale. Secondo, scrisse della soggettività della classe lavoratrice nera schiava come forza decisiva nell’esito della guerra favorevole al Nord. Terzo, notò – come esempio del più alto internazionalismo – il supporto senza riserve al Nord della classe lavoratrice inglese, nonostante il grave disagio economico che il blocco da parte del Nord del cotone del Sud avesse provocato in Manchester e altri centri industriali. Infine, la sua prima Internazionale aveva avvertito con preveggenza che il fatto che l’America non riuscisse a concedere pieni diritti politici e sociali agli schiavi emancipati avrebbe condotto di nuovo il paese in un bagno di sangue.

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Marx aveva anche appoggiato la rivolta polacca del 1863, che cercava di restaurare l’indipendenza nazionale in quel paese che aveva lungamente sofferto. Già nel Manifesto comunista   Marx ed Engels avevano espresso il loro sostegno all’indipendenza polacca come principio fondamentale per i lavoratori e i movimenti socialisti. Gli scritti di Marx sulla Polonia e la Russia erano strettamente connessi. Egli e la sua generazione vedevano la Russia come una potenza duramente reazionaria, che costituiva la più grande minaccia per i movimenti democratici e socialisti d’Europa. Vedeva l’autocrazia russa, che considerava come una forma di “dispotismo orientale” ereditata dalla conquista mongola, radicata nel carattere agrario del paese, in modo particolare nelle forme comunitarie e nelle relazioni di proprietà comunitaria predominanti nei villaggi russi. Come per l’India e la Cina, verso il 1858 Marx cominciò a modificare il suo punto di vista sulla Russia, tenendo conto dell’emancipazione nascente dei servi e della possibilità di una rivoluzione agraria, come si può vedere in diversi suoi articoli del Tribune sulla Russia.

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Col tempo, Marx elaborò una nuova prospettiva teorica sull’Inghilterra e l’Irlanda, che aveva implicazioni ben oltre questo particolare tema storico. La sua visione sull’Irlanda in questo periodo segna il culmine dei suoi scritti su etnicità, razza e nazionalismo. Tempo prima, aveva previsto in maniera modernista che il movimento inglese dei lavoratori, prodotto della società capitalistica più avanzata del periodo, avrebbe prima preso il potere e poi avrebbe sostenuto l’Irlanda nella sua lotta per l’indipendenza, offrendo all’eventuale paese indipendente sostegno materiale e politico. Verso il 1869-70, tuttavia, Marx aveva cambiato posizione, e ora affermava che l’indipendenza irlandese doveva avvenire prima. I lavoratori inglesi, sosteneva, erano così imbevuti di orgoglio nazionalista e arroganza da grande potenza nei confronti degli irlandesi che avevano sviluppato una falsa coscienza, che li legava alla classe dominante inglese, attenuando così il conflitto di classe nella società britannica. Questa impasse poteva essere superata solo con il sostegno diretto all’indipendenza nazionale irlandese da parte dei lavoratori britannici, qualcosa che sarebbe servito a riunificare i lavoratori in Inghilterra, dove i lavoratori irlandesi immigrati costituivano uno strato sottoproletario. I lavoratori britannici spesso si lamentavano della concorrenza con gli irlandesi poveri che portava all’abbassamento dei loro salari, mentre gli irlandesi spesso non riponevano fiducia nel movimento britannico, considerandolo un’altra espressione proprio di quella società britannica che li dominava, sia a casa che fuori. In più di un’occasione Marx collegava il suo pensiero su classe, etnicità e nazionalismo nel caso degli irlandesi e degli inglesi ai rapporti di razza negli Stati Uniti, e paragonava la situazione degli irlandesi in Inghilterra a quella degli afro-americani. Paragonava anche l’atteggiamento dei lavoratori inglesi ai bianchi poveri degli stati del Sud, che troppo spesso si erano uniti ai piantatori bianchi contro i fratelli lavoratori neri. In questo senso, Marx stava elaborando una concezione dialettica più ampia di razza, etnicità e classe. Nello stesso tempo criticava le forme ristrette di nazionalismo, in particolare le versioni irlandesi che regredivano verso identità religiose o rimanevano così lontane dal popolo britannico che non riuscivano a tener conto del lavoro dell’Internazionale.

Quasi tutte queste considerazioni hanno trovato riscontro nell’opera teorica più importante di Marx, Il capitale, sebbene a volte solo come temi minori. Nell’edizione francese del 1872-75, l’ultima che preparò per la pubblicazione, Marx non solo corresse la traduzione di Joseph Roy, ma effettuò anche la revisione dell’intero libro.

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Verso gli anni ’70 Marx avviò una serie di raccolte di note sugli studi correnti su un folto e diverso gruppo di società non occidentali ed extraeuropee, tra cui l’India contemporanea, l’Indonesia (Giava), Russia, Algeria e America latina. Redasse anche note su studi di popoli indigeni, come i nativi americani e gli aborigeni australiani. Un tema centrale di queste note erano le relazioni sociali e le forme di proprietà comunitarie ritrovate in molte di queste società.

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Prima di tutto, le note mostrano una nuova valutazione dello sviluppo storico dell’India, contro la sua precedente visione di quel paese come una società senza storia.

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Secondo, le note mostrano il suo interesse non per la passività indiana, come nel 1853, ma per il conflitto e la resistenza di fronte alla conquista straniera, sia contro le incursioni musulmane del periodo medievale che contro i colonialisti inglesi del suo tempo.

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Nei suoi studi sull’India, Algeria e America latina, Marx distingueva la persistenza di forme comunitarie di fronte ai tentativi del colonialismo occidentale di distruggerle a favore delle forme di proprietà privata. In alcuni casi, come l’Algeria, queste forme comunitarie erano legate direttamente alla resistenza anticoloniale. In questo periodo, le primitive nozioni di Marx sul carattere progressivo del colonialismo erano cadute, sostituite da una aspra e irremovibile condanna.

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Come nel caso di alcuni dei suoi scritti precedenti, specialmente negli anni ’40, il genere fu un tema dominante nelle note del periodo 1879-82 sui popoli indigeni, come gli Irochesi, così come sulla società romana.

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Se la teorizzazione di Marx su nazionalismo, etnicità e classe ebbero il loro punto più alto negli scritti del 1869-70 sull’Irlanda, quelli sulle società non-occidentali culminarono nelle sue riflessioni sulla Russia del periodo 1877-82.

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Egli notava che la struttura sociale del villaggio comunitario russo differiva sensibilmente da quella del villaggio precapitalistico nel feudalesimo occidentale. Questa differenza suggeriva la possibilità di una forma alternativa di sviluppo sociale e di modernizzazione in Russia.

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In complesso, in questo studio ho sostenuto che Marx sviluppò una teoria dialettica del mutamento sociale che non era né unilineare né basata esclusivamente sulla classe. Proprio come la sua teoria dello sviluppo sociale si distese in una direzione multilineare, così la sua teoria della rivoluzione cominciò a concentrarsi man mano e in modo crescente sulla intersezionalità tra classe ed etnicità, razza, nazionalismo. Di certo, Marx non fu un filosofo della differenza in senso post-modernista, perché la critica di un’unica entità onnicomprensiva, il capitale, era al centro della sua impresa intellettuale complessiva. Ma centralità non significava univocità o esclusività. La sua teoria sociale matura ruotava intorno a un concetto di totalità che non solo apriva considerevole spazio alla particolarità e alla differenza ma anche di quando in quando rendeva queste particolarità – razza, etnicità o nazionalità – determinanti per la totalità. Tale era il caso quando sosteneva che una rivoluzione nazionale irlandese avrebbe potuto essere la “leva” per contribuire al rovesciamento del capitalismo in Inghilterra, o quando scriveva che una rivoluzione con le sue radici nella comune rurale russa avrebbe potuto fungere da punto di partenza per uno sviluppo comunista in tutta l’Europa. Da un lato, Marx analizzava il modo in cui il capitale dominava il globo. Esso toccava ogni società e per la prima volta al mondo creava un sistema industriale e commerciale universale, e con esso una nuova classe universale di oppressi, la classe lavoratrice industriale. Ma dall’altra parte, nello sviluppare questa teoria universalizzante della storia e della società, Marx – come sottolineato in questo libro – si sforzò di evitare universali formalistici e astratti. Tentò più volte di elaborare i modi specifici in cui il potere universalizzante del capitale e della classe si manifestavano in società o gruppi sociali particolari, come nel caso di società non-occidentali non completamente penetrate dal capitale come la Russia e l’India, o di interazioni specifiche della coscienza di classe con etnicità, razza e nazionalismo nei paesi più industrialmente sviluppati.

(…)

Comunque, sorge un’altra questione. Che cosa rivela la dialettica sociale multilineare, multiculturale di Marx rispetto al capitalismo globalizzato di oggi? Ha la sua prospettiva multilineare sullo sviluppo sociale della Russia – e altri paesi non-capitalistici di quel tempo – qualche diretta rilevanza oggi? La mia risposta è che questo oggi è vero solo in misura limitata.

Ci sono naturalmente alcune aree del mondo – come il Chiapas, Messico, o gli altipiani della Bolivia e del Guatemala, o comunità simili in America latina, Africa, Asia e Medio Oriente – dove forme indigene comunitarie sopravvivono. Ma nessuna di esse è sulla scala delle comunità russe o indiane dell’epoca di Marx. Nondimeno, vestigia di queste forme comunitarie talvolta seguono i contadini nelle città e, in ogni caso, movimenti anticapitalisti si sono sviluppati recentemente in luoghi come il Messico e Bolivia sulla base di queste forme indigene comunitarie. In complesso, tuttavia, anche queste aree sono state penetrate dal capitale in misura molto più grande che non nei villaggi indiani o russi negli anni 1880.  Il modo multilineare di Marx nell’affrontare la questione della Russia, dell’India e di altri paesi non-capitalistici è più rilevante oggi a un livello teorico o metodologico generale, tuttavia. Può servire infatti per un importante scopo euristico, come esempio massimo della sua teoria dialettica della società. Al riguardo, egli lavorava sulla base del principio generale secondo il quale il mondo intero stava entrando sotto il dominio del capitale e della forma valore, mentre nello stesso tempo analizzava molto concretamente e storicamente molte delle società più notevoli del globo che non erano ancora sottoposte alla sua piena dominazione.

Sul piano dell’intersezionalità di classe, razza, etnicità e nazionalismo, molte delle conclusioni teoriche di Marx sono più direttamente rilevanti per noi oggi. In tutti i maggiori paesi industriali le divisioni etniche spesso innescate dall’immigrazione hanno trasformato le classi lavoratrici.

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Di nuovo, la forza della prospettiva teorica di Marx sta nel suo rifiuto di separare questi temi dalla critica del capitale, qualcosa che le dà un contesto più ampio senza comprimere etnicità, razza o nazionalità nella classe. Come 1) dialettica multilineare dello sviluppo sociale; o 2) come esempio euristico che offre indicazioni teoriche per i movimenti indigeni di oggi di fronte al capitalismo globale; o 3) come teorizzazione della classe in relazione a razza, etnicità e nazionalismo, credo che gli scritti di Marx al centro di questo libro offrano alcune prospettive privilegiate per l’oggi.

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