Sentori insurrezionali

Kevin B. Anderson

Summary: This article was first published in English on December 30, 2018 in International Marxist-Humanist. The Italian translation, translated by Giuseppe Volpe and published in Ancora Fischia Il Vento — Editors

La rabbia al calor bianco dei lavoratori francesi come realtà di fatto

Dopo aver rumoreggiato per settimane sui media sociali, il movimento dei Gilet Gialli (Gilets Jaunes) è improvvisamente emerso il 17 novembre quando non meno di 300.000 dimostranti hanno occupato strade e rotatorie stradali in aree extraurbane e rurali. Indossavano i gilet gialli che il governo prescrive a tutti gli automobilisti di acquistare e che immediamente sono divenuti l’emblema del movimento. Quella settimana e nelle successive i Gilet Gialli si sono anche avventurati nel cuore di Parigi, bloccando il viale dorato degli Champs-Elysées e quasi raggiungendo il vicino palazzo presidenziale. Dall’inizio le donne sono state insolitamente in prima linea nelle occupazioni locali e nelle marce in strada. Al tempo stesso i Gilet Gialli hanno cacciato molti politici che avevano visitato le loro sedi di protesta, compresi alcuni della sinistra.

Il 17 novembre e nelle successive diverse settimane di sfoghi di massa, le folle in protesta hanno dovuto affrontare le consueta brutalità poliziesca del regime francese, a quel punto erigendo barricate sugli Champs-Elysées e con grida delle folle che includevano appelli alle immediate dimissioni del presidente neoliberista Emmanuel Macron, “Giù la borghesia” e, con un riferimento che richiamava la Grande Rivoluzione del 1789, “Abbiamo tagliato teste per meno di questo” (Alissa J. Rubin, “Dimostranti francesi rimproverano Macron”, New York Times, 3.12.2018).

Ma accanto a questa rabbia al calor bianco non c’è stato il nichilismo della pura distruttività, bensì sentite aspirazioni a un futuro più umano, quello che in termini dialettici è chiamato il positivo nel negativo. Come hanno dichiarato a novembre i Gilet Gialli di Saint-Nazaire: “Il nostro obiettivo non è distruggere ma tutto il contrario: costruire un mondo più umano per noi e per le generazioni future… la soluzione sta in noi, lavoratori, disoccupati, pensionati di tutte le origini e di ogni colore” (Gilets Jaunes: Des clés pour comprendre).

Dalla quasi rivoluzione del 1968 la Francia – o qualsiasi altro dei paesi capitalisti cosiddetti occidentali – aveva mai assistito a qualcosa di simile: una serie massiccia, spontanea, nazionale di dimostrazioni militanti che non solo si sono guadagnate l’appoggio della maggioranza, ma sono anche riuscite a bloccare alcune parti cruciali dell’economia, come le raffinerie di petrolio, mettendo l’intero governo sulla difensiva. Come ha scritto un articolo dell’estrema sinistra: “Nell’aria aleggiava un sentore di rivoluzione” (“Une situation excellente?”, Plateforme d’Enquetes Militantes, 6.12.2018). Al tempo stesso andrebbe notato che il 1968 fu immensamente più vasto, coinvolgendo molteplici settori della società e, con una popolazione inferiore a quella odierna, dieci milioni di lavoratori in sciopero e quasi tutte le principali istituzioni economiche e d’istruzione occupate da lavoratori o studenti. Né dovremmo dimenticare le rivolte dei ghetti neri e latinoamericani negli USA negli anni ’60 e dopo, o simili in Francia e in Gran Bretagna in anni recenti da parte di gente di colore impoverita. Tuttavia il movimento dei Gilet Gialli costituisce la prima volta dal 1968 in cui un movimento di massa insurrezionale è scoppiato in un paese capitalista sviluppato, basato principalmente sulla maggioranza bianca, per non parlare di quelli in aree rurali e semirurali.

Il governo francese, visibilmente scosso, è stato costretto a cedere terreno. Pur avendo promesso in stile regale sia nella sua campagna elettorale del 2017 sia dopo di non cedere mai alla pressione della piazza, Macron è stato costretto a far marcia indietro parzialmente e ad accedere ad alcune delle richieste dei dimostranti.

(Il contagio ha anche attraversato i confini della Francia. Il Belgio ha vissuto scioperi di massa di lavoratori di nuova militanza contro le politiche d’austerità, mentre la ferrea dittatura del generale egiziano Abdel Fattah al-Sisi si è affrettata a vietare per precauzione la vendita di gilet gialli).

La rimostranza che ha scatenato il movimento dei Gilet Gialli è stata un aumento programmato per il 2019 dell’imposta sulla benzina, che avrebbe colpito specialmente i lavoratori poveri e le classi medio-basse fuori dai maggiori centri urbani. Questi segmenti della popolazione sono sempre più dipendenti dalle loro automobili per recarsi al lavoro e altre attività della vita in un’economia che sta diventando sempre più delocalizzata. Contemporaneamente l’apparato statale centralizzato ha concentrato le sue iniziative di trasporti pubblici su vistose ferrovie ad alta velocità tra i maggiori centri urbani, lasciando al contempo deteriorare le linee di autobus e treni locali.

Inizialmente il governo e i media internazionali hanno presentato la protesta come lo scontro di rimostranze popolari di alcuni abitanti rurali contro il progetto eccessivamente ecologicamente idealista del governo Macron di scoraggiare l’uso dell’automobile. Questa versione calunniosa non ha fatto che infuriare ulteriormente i Gilet Gialli, nonché la maggioranza del popolo francese, specialmente per il fatto che Macron è diffusamente deprecato come “il presidente dei ricchi”. Contemporaneamente al suo aumento dell’imposta sulla benzina, il suo taglio dell’ISF [Imposta di solidarietà sulle fortune] ai molti ricchi ha significato che “le cento persone più ricche del paese hanno ricevuto l’equivalente di un milione di euro ciascuna di riduzione delle tasse” (Paul Elek, “Il vulcano popolare è tornato!”, Transform! Europe 8.12.2018). O come ha detto l’ambientalista marxista Andreas Malm: “Se ci fosse bisogno di un’altra lezione su come non mitigare il cambiamento climatico, si può ringraziare Emmanuel Macron. Tagliare le imposte ai ricchie e sbattere imposte più alte sui carburanti… La gestione capitalista del clima… assicura sempre che tutti gli oneri concreti finiscano sulle spalle dei poveri” (“Una lezione su come non mitigare il cambiamento climatico”, Verso Blog, 7.12.2018).

La lista delle doglianze del movimento e il suo carattere sociopolitico

Arrivati al 29 novembre, numerose altre “direttive del popolo” erano state trasmesse al governo, spingendosi molto oltre la revoca dell’imposta sui carburanti. Molte di tali richieste mostravano una tendenza di classe lavoratrice o di sinistra, tra cui (1) revoca della riduzione dell’imposta ISF ai ricchi, (2) aumento del salario minimo, (3) indennità pensionistiche più sicure per tutti, (4) agganciare gli stipendi dei rappresentanti eletti al salario medio nazionale, (5) buon trattamento dei richiedenti asilo, (6) lavoro per i disoccupati, (7) classi di numero non superiore a 25 dall’asilo al diploma, (8) pensione piena a 60 anni e a 55 per quelli che svolgono un lavoro fisico pesante, (9) concentrazione sugli alloggi e promozione del trasporto ferroviario delle merci per motivi ecologici, (10) fine delle chiusure di linee ferroviarie, uffici postali e scuole locali. Altre richieste erano di natura più protezionista o nazionalista: (1) grandi catene come MacDonald’s o Google devono pagare imposte più elevate, piccoli negozi e artigiani meno elevate, (2) protezione dell’industria francese, (3) divieto della vendita di attività nazionali come dighe e aeroporti, (4) reimpatrio dei richiedenti asilo i cui casi sono stati respinti, (5) migliore integrazione di quelli che vivono in Francia, che dovrebbero diventare francesi imparando la lingua e la storia del paese (Robert Duguet, “Les Cahiers de Doléances”, in ‘Gilets Jaunes: Des clés pour comprendre’, Parigi, Editions Syllepse, dicembre 2018).

Di certo è sbagliato considerare i Gilet Gialli come un movimento conservatore interessato solo a tasse più alte e indifferente all’ambiente, specialmente poiché si è spostato a sinistra nelle settimane dopo aver fatto irruzione sulla scena il 17 novembre. Ma è ugualmente sbagliato evidenziare unicamente gli elementi più progressisti delle sue richieste e altre articolazioni.

Le richieste più preoccupanti dei Gilet Gialli sono quelle riguardanti il rimpatrio di richiedenti asilo respinti e il diventare “francesi”, ciascuna delle quali ha delle implicazioni razziste. Questo non dovrebbe sorprendere in un paese che ha dato alla neofascista Marine Le Pen il 34 per cento dei voti alle elezioni nazionali del 2017, con livelli ancor più elevati in molte aree rurali. Come scrive Cédric Durand: “In questo movimento si trovano a coabitare, in mezzo a grande confusione, sentimenti di destra e di sinistra, una gran massa di persone con scarsa esperienza politica con attivisti anticapitalisti e fascisti” (“Le fond de l’air est jaune”, Contretemps: Revue de Critique Communiste, 11.12.2018). (Citerò estesamente da autori sui media francesi e globali al fine di dare un’idea di un dibattito che è tuttora in corso sulla natura e il significato del movimento dei Gilet Gialli).

O, come ha osservato la Plateforme d’Enquetes Militantes di estrema sinistra, durante le proteste dell’8 dicembre a Parigi “Sono apparsi nuovi slogan, come ‘Parigi, Borghesia, Arrendetevi’, ‘Non consegnate i migranti, consegnate i soldi a noi’, e persino il canto dell’Internazionale”, ma al tempo stesso alcuni slogane erano di natura più ambigua e possibilmente di destra. L’articolo della Plateforme ha anche citato il “lavoro condotto nelle ultime quattro settimane da gruppi antifascisti responsabili dell’espulsione dalle marce di gruppi più apertamente di estrema destra”. Questo articolo ha anche segnalato “la considerevole presenza di giovani delle periferie nelle rivolte”, un riferimento alle periferie impoverite di Parigi con vaste popolazioni nere e arabe (“Macron ne lache rien, les gilets jaunes non plus!”, 13.12.2018).

Una dichiarazione del 28 novembre del Comitato Adama contro il razzismo e gli omicidi polizieschi, “I quartieri popolari al fianco dei Gilet Gialli”, ha affermato: “I quartieri popolari stanno affrontando gli stessi problemi sociali delle aree rurali o extraurbane… afflitti dalle politiche iper-[neo]liberiste di Macron… Ci vogliono diverse ore di macchina a noi per arrivare al lavoro… inoltre subiamo il 40 per cento di disoccupazione in alcuni quartieri… Razzismo, umiliazioni quotidiane e violenza poliziesca si aggiungono a queste disuguaglianze sociali. Questa violenza [poliziesca] è subita oggi anche dai Gilet Gialli… Non cediamo il campo all’estrema destra e riaffermiamo la nostra posizione contro il razzismo nel movimento dei Gilet Gialli… Sollecitiamo tutti i residenti nei quartieri popolari a uscire in gran numero per combattere per la loro dignità il 1° dicembre” (Gilets Jaunes: Des clés pour comprendre).

Nonostante alcune contraddizioni, la spinta complessiva del movimento dei Gilet Gialli è stata progressista: contro il neoliberismo, contro la disuguaglianza economica, contro lo stato francese centralizzato e a favore della democrazia di base. Inoltre è emerso fuori dai centri urbani, nelle stesse parti della Francia dalle quali i neofascisti hanno tratto gran parte del loro sostegno. Esaminiamo un po’ di più la sua composizione sociale.

Il pericolo del Lassallismo

Gli strati sociali che si sono auto-mobilitati all’insegna dei Gilet Gialli non sono stati i tipici elettorati di sinistra, almeno agli occhi delle parti dominanti della sinistra globale. Più rurali, autonomi o dipendenti da piccole imprese, potrebbero troppo facilmente essere scartati come “piccolo-borghesi” da parte dei marxisti ortodossi, che li considerano la base di massa della reazione e del fascismo.

Questa è una prospettiva distorta le cui radici risalgono al movimento socialista tedesco di Ferdinand Lassalle, una tendenza rivale di quella di Marx, ma che divenne un’importante influenza fondatrice nella Seconda Internazionale (Socialista). I seguaci di Lassalle consideravano notoriamente tutte le forze estranee alla classe operaia industriale “una massa reazionaria”. Per Marx questa era una distorsione del Manifesto Comunista nel quale lui e Engels avevano affermato: “Di tutte le classi che oggi sono faccia a faccia oggi con la borghesia, il solo proletariato è una classe realmente rivoluzionaria”. Tuttavia Marx ed Engels non intendevano in tal modo scartare il potenziale rivoluzionario di altre classi non dominanti. Marx perciò rimbeccò nella sua Critica del programma di Gotha: “Qualcuno ha detto nelle ultime elezioni agli artigiani, ai piccoli fabbricanti, eccetera, e ai contadini: rispetto a noi voi, insieme alla borghesia e ai signori feudali, formate un’unica massa reazionaria?” (Karl Marx, Critica del Programma di Gotha, Capitolo 1).

Il lassallismo costituisce una parte importante dell’origine intellettuale dell’”operaismo” riduzionista di classe che si ritrova ancor oggi alcune varietà del trotzkismo. E’ anche legato a come un gran numero di liberali statunitensi dichiara o che le aree rurali possono essere considerate irrecuperabili a causa del cambiamento demografico (ottimisti) oppure che tali aree continueranno a controllare il Senato e dunque a trascinare permanentemente a destra il governo nonostante il voto popolare (pessimisti). Ma come mostra spettacolarmente il movimento dei Gilet Gialli, le aree rurali non sono mai state monolitiche, poiché anche la popolazione rurale soffre sotto il peso del capitalismo, che si tratti della sua fase monopolistica di un secolo fa (con l’emersione di Populisti statunitensi di sinistra) o della sua fase neoliberista oggi (con l’emersione dei Gilet Gialli).

Inoltre se si riflette su una reale rivoluzione sociale piuttosto che sulla sola politica elettorale, o su colpi di stato fascisti come possibilità reale anche in repubbliche democratiche consolidate, si deve anche riflettere su come il nucleo duro dello stato, l’apparato militare-poliziesco, possa essere sconfitto. In quel caso si deve considerare che nella maggior parte delle società il grosso dell’esercito proviene dalle aree più rurali e che in numerose occasioni, dalla Comune di Parigi del 1871 alle rivolte democratiche cinesi del 1989, soldati di aree rurali lontane sono stati mandati a reprimere il movimento. Erano in grado di farlo in gran parte perché il movimento rivoluzionario non era riuscito a diffondersi in quelle aree rurali, cosa segnalata da Marx dopo il 1871 riguardo alla Comuni di Parigi francese. Non fosse stato così, quei soldati sarebbero più probabilmente passati dalla parte dei rivoluzionari, come accaduto in Russia nel 1917. In paesi come gli USA oggi, un tentativo di colpo di stato fascista sembra più prossimo di una rivoluzione sociale. Ma questo è un motivo in più per considerare come la sinistra deve uscire dai centri urbani per interagire, e conquistarli, con quei settori della popolazione i cui figli e figli si arruolano nell’esercito in così gran numero.

Con questo non si vuole negare il fatto che gruppi di classe media in mobilità verso il basso (piccola borghesia) e popolazioni rurali tratte da gruppi etnici dominanti (non, ovviamente, membri di gruppi di minoranze oppresse come i neri rurali negli USA o i curdi in Medio Oriente) abbiano a volte costituito la base sociale di populismo e fascismo di destra, come hanno mostrato teorici quali Leon Trotzky ed Erich Fromm. Ma tale posizionamento è un prodotto anche dello stato della formazione delle idee e delle soggettività rivoluzionarie in specifiche congiunture storiche, cosa che noi, da rivoluzionari di sinistra, non possiamo controllare ma che siamo in condizioni di influenzare e contribuire a plasmare.

La composizione sociale del movimento

Che cosa significa dire, nel contesto della Francia e di altri paesi capitalisti industrialmente sviluppati oggi, che i Gilet Gialli sono più rurali, più di classe media e più bianche di altri recenti movimenti radicali? Come segnala la Plateforme d’Enquetes Militantes: “Innanzitutto, la composizione sociale del movimento. Questa nuova rivolta è caratterizzata da classi medie in mobilità verso il basso e da strati sociali che subiscono la proletarizzazione. Certamente sono presenti gli strati familiari dei dipendenti pubblici e civili, dei lavoratori dei servizi, dei percettori di salario dei bacini industriali e degli studenti. Ma in prima linea nella dinamica pare esserci un’intera serie di altri segmenti sociali in lotta per far quadrare i conti: dipendenti di industrie piccole e medie, negozianti, artigiani e la crescente pletora di nuove forme di lavoro indipendente e precario. L’unità di questa diversità sociale nel rifiuto di Macron e della sua politica centrista (politica proveniente da destra o da sinistra, non importa realmente) sta in un sentimento generalizzato di averne avuto abbastanza (ras-le-bol), ancorati alla materialità delle condizioni di vita. La violenza della mobilità verso il basso per alcuni, la durezza del lavoro per altri; quelli che vedono crollare i loro diritti sociali o quelli che non hanno mai avuto realmente tali diritti; quelli per i quali il futuro improvvisamente appare molto più fosco di quanto si aspettassero e quelli che sono cresciuti con un orizzonte di aspettative in affievolimento” (“Su un crinale: note sul movimento dei ‘Gilet Gialli’”, Viewpoint Magazine, 6.12.2018).

Un altro aspetto nuovo, raramente rimarcato, è la vasta presenza delle donne tra i Gilet Gialli: “Le donne sono anche nelle rotatorie e nei blocchi stradali, in testa alle dimostrazioni e agiscono da portavoce. Visibili sugli schermi televisivi, danno al movimento un’immagine insolita, poiché sin troppo spesso sono gli uomini a parlare nei movimenti sociali. Prime vittime della precarietà, della disoccupazione e del lavoro involontario a tempo parziale, le donne in gilet giallo denunciano la condizione sociale imposta loro. Sono una forza vitale del movimento” (“Nous sommes le peuple”, Gilets Jaunes: Des clés pour comprendre).

Il sociologo rurale Benoit Coquard amplifica questo punto: “In termini di genere c’è stato qualcosa di notevole secondo me: c’erano quasi tante donne quanti uomini anche se, come è consueto, specialmente in aree rurali, sono gli uomini che assumono funzioni pubbliche. Direi persino che le donne hanno assunto l’iniziativa nel creare riunioni pubbliche. Molte volte ho osservato qui la madre sola divorziata che sbarca un’esistenza precaria o la giovane sola” (“Qui sont e que veulent les ‘gilets jaunes’?, intervista a Contretemps, 23.11.2018).

I media prevalenti hanno oscurato questo fatto, ma anche donne sono state colpite dalla brutale repressione poliziesca.  Come ha declamato il filosofo Frédéric Lordon: “Mentre France Info ci ha rimpinzato fino alla nausea di immagini delle finestre dell’ospedale Necker e di un McDonalds in fiamme, nessun notiziario di mezzogiorno di lunedì scorso [3 dicembre] ci aveva ancora informato della morte di una donna sull’ottantina uccisa da un candelotto lacrimogeno” (“End of the World?”, Verso Blog, 7 dicembre 2018).

Si deve anche riflettere su come la classe lavoratrice sia cambiata nei decenni di capitalismo neoliberista. Come indica Jean-Francois Cabral, la classe lavoratrice del 1968 con le sue fabbriche gigantesche e i suoi potenti sindacati non esiste più nella stessa forma, certamente non in Francia né in altri paesi industrialmente sviluppati: “La realtà è divenuta più complessa. Ex proletari sono diventati imprenditori autonomi accanto a proprietari di piccole aziende che devono sporcarsi le mani? E davvero un problema questo?” (“Des gilets rouges aux gilets jaunes: la classe ouvriere introuvable?” Gilets Jaunes: Des clés pour comprendre).

Questi sono problemi che vanno ben oltre la Francia, ma ciò che è notevole riguardo ai Gilet Gialli è l’emersione di un movimento contro la ricchezza concentrata e a favore della sua ridistribuzione, nonché come una molteplicità di altre richieste progressiste, in un paese che nel 2017 era preoccupato da una vittoria elettorale neofascista e nel quale razzismo, sentimenti anti-immigranti e sessismo esistono a livelli considerevolmente elevati. Di certo i Gilet Gialli non sono un movimento anticapitalista, ma sembrano offrire alcune possibilità reali per una sinistra di massa che abbracci tutti i lavoratori, indipendentemente da razza, genere o geografia.

Paragoni e contesti

Come possiamo contestualizzare i Gilet Gialli in termini di rivolte popolari e movimenti recenti in tutto il mondo?

Diversi commentatori hanno collegato le proteste spontanee, fondamentalmente prive di capi, dei Gilet Gialli a quelle a partire dalle Rivoluzioni Arabe del 2010-11, quando le masse tunisine ed egiziane hanno rovesciato i loro autocrati. Queste a loro volta hanno ispirato Occupy, gli Indignados spagnoli e altri movimenti simili fuori dal Medio Oriente. Rimproverando quelli che continuano a considerare i movimenti radicali unicamente in termini gerarchici, l’anarchico David Graeber scrive, alla luce dell’improvviso emergere dei Gilet Gialli, di una “orizzontalità” che sostituisce “la vecchia ‘verticalità’ o i modelli avanguardisti di organizzazione”. Egli aggiunge che gli “intellettuali” devono dedicarsi “un po’ meno a parlare e molto di più ad ascoltare” in rapporto a questi nuovi movimenti (“I ‘Gilet Gialli’ dimostrano quanto il terreno si muove sotto i nostri piedi”, Brave New Europe, 11 dicembre 2018). E’ certamente vero che molti movimenti rivoluzionari, dall’assalto alla Bastiglia nel 1789 a quelli che hanno cacciato diversi tiranni arabi nel 2011, sono stati privi di leader e orizzontali.

Ma la tesi di Graeber ha due principali limiti. (1) Egli continua a rivolgersi alla sinistra, impartendole lezioni, non dialogando con i movimenti reali, come si vede dal fatto che non nemmeno un solo slogan o una sola voce delle proteste francesi, o qualsiasi altra, quanto a questo. Si confronti ciò con la nostra tradizione marxista-umanista che ha pubblicato classici come Indignant Heart: A Black Worker’s Journal di Charles Denby, registrando le parole degli strati più profondi degli oppressi e nella quale la sollevazione di massa non è soltanto descritta e celebrata, ma anche analizzata criticamente. (2) In modo più cruciale, Graeber si preoccupa tanto di negare l’accusa che i Gilet Gialli siano nichilisti o reazionari, che semplicemente li celebra, senza sollevare il genere di domande critiche che intellettuali, teorici e membri di organizzazioni radicali devono porre se vogliono davvero sostenere tali movimenti. Ad esempio, Piazza Tahrir fu un esempio magnifico di soggettività rivoluzionaria orizzontale, ma al tempo stesso, gli elementi genuinamente rivoluzionari non ebbero la possibilità di costruire le loro organizzazioni o di sviluppare una prospettiva teorica razionale. Ciò determinò la loro oscillazione tra, da una parte, un’alleanza con la conservatrice Fratellanza Mussulmana o, dall’altra, con l’esercito, nazionalista ma autoritario. (Gilbert Achcar, Morbid Symptoms: Relapse in the Arab Upspring, Stanford University Press, 2016). Questo non significa che Graeber sbagli, tuttavia, nel considerare i Gilet Gialli parte della tradizione rivoluzionaria iniziata nel 2011 e nella quale egli ha avuto un ruolo cruciale in Occupy Wall Street.

Un secondo contesto per i Gilet Gialli non è stato notato molto: il collegamento con diverse altre rivolte rurali contro l’oppressione economica l’anno scorso. In Oklahoma e West Virginia, insegnanti statunitensi hanno inscenato scioperi militanti e massicci la scorsa primavera, riuscendo a ottenere alcune considerevoli vittorie. Le donne sono state in prima linea in molti di tali scioperi che hanno preso di mira paghe tanto basse da costringere gli insegnanti ad avere un secondo lavoro per sopravvivere. Per parte loro, i sindacati degli insegnanti sono stati piuttosto trascinati dagli eventi che nella posizione di guidare questi scioperi. Il fatto che la militanza degli insegnanti è scoppiata più massicciamente in questi stati prevalentemente rurali che avevano votato in misura schiacciante per Trump ha mostrato che quelle aree avevano possibilità radicale oltre l’immaginazione della sinistra e dei liberali sotto il maleficio del paradigma lassalliano discusso più sopra. Come conclude il ricercatore dell’istruzione Lois Weiner: “I movimenti degli insegnanti stanno preparando il terreno per un nuovo movimento sindacale nel sud” (“Walkouts Teach U.S.Labor a New Grammar for Struggle”, New Politics 65, estate 2018).

Un’analogia meno discussa ma ancor più adatta ai Gilet Gialli può essere trovata nelle proteste e sommosse iraniane in aree rurali l’inverno scorso. A fine dicembre 2017 e fino a gennaio 2018 si è verificata una serie di rivolte violente in 80 cittadine e aree rurali che erano state ritenuti base politica del regime islamista. Come ha scritto all’epoca un corrispondente anonimo dall’interno dell’Iran: “Le proteste si sono diffuse orizzontalmente, coprendo la maggior parte delle città nelle parti settentrionale, meridionale e occidentale dell’Iran. Cittadine e luoghi più lontani dal centro, che prima di questo movimento erano roccaforti governative, si stanno rivoltando. E’ stato sorprendente vedere come un gran numero di persone di piccole città dell’Iran occidentale, che in passato non erano attive in crisi politiche, è sceso in strada. In queste città il tempo intercorso tra le proteste pacifiche di piazza e l’attacco a centri governativi e il loro incendio è stato molto breve” (Un marxista iraniano, “La rivolta iraniana dopo cinque giorni”, International Marxist-Humanist, 3.1.2018 – vedere anche gli articoli su questo sito in quel mese di Mansoor M, Ali Kiani e Ali Reza). Come in Francia, aree del paese spesso considerate “reazionarie” sono state in prima linea nelle proteste incentrate principalmente su rivendicazioni economiche: salari in declino o non pagati, disoccupazione, corruzione e favoritismi e una mala gestione ecologicamente disastrosa della fornitura dell’acqua. Anche se i diritti delle donne non erano un tema esplicito delle proteste e delle rivolte, alcune significative dimostrazioni di donne contro il velo si sono verificate nello stesso periodo. Molti dei residenti urbani che avevano appoggiato le proteste iniziali contro il regime erano sbalorditi e persino sospettosi, esitando ad appoggiare le nuove sollevazioni nelle aree rurali.

Anche il movimento dei Gilet Gialli ha un’eco particolarmente francese, a volte con implicazioni nazionaliste. Si ricordi, tuttavia, che questo è un paese il cui sistema repubblicano moderno è stato fondato attraverso una delle grandi rivoluzioni sociali della storia, quella del 1789. Quella rivoluzione aprì la via sia a un sistema democratico moderno che consente a gruppi sindacali e socialisti di organizzarsi, sia a una nuova forma di società di classe, il capitalismo, con tutto il suo sfruttamento e la sua oppressione. Si ricordi anche che quell’eredità “repubblicana” – specialmente la bandiera tricolore e l’inno nazionale della ‘Marsigliese’ – almeno dalla Rivoluzione russa del 1917 è stata usata più dal centro e dalla destra che dalla sinistra che innalzava la bandiera rossa e cantava l’’Internazionale’. Inoltre la sinistra ha – per buoni motivi – respinto per la maggior parte il linguaggio del “popolo” a favore di quello della “classe lavoratrice” o delle “classi popolari”. Così è stato un po’ frastornante per la sinistra francese assistere a proteste contro i ricchi e contro il deterioramento delle condizioni economiche accompagnate dal canto della “Marsigliese” e dallo sventolio del tricolore, nonché a riferimenti al “popolo” francese, specialmente quando quelle stesse proteste sollecitavano la rivoluzione e a volte persino la ghigliottina. Spesso la sinistra moderna ha anche teso a considerare con sospetto movimenti contro le tasse a base locale.

Ma, come ci informa lo storico Gérard Noiriel, la resistenza locale allo stato da parte di contadini e altre classi popolari aveva una lunga tradizione negli anni precedenti il 1789. In molti casi quella resistenza assunse la forma di opposizione alle tasse reali: “Le lotte contro la tassazione hanno avuto un ruolo estremamente importante nella storia popolare francese”, cioè le lotte delle classi popolari francesi prerivoluzionarie, ad esempio, di contadini e artigiani. Per molti anni ciò è stato inglobato nei movimenti sindacali e socialisti che appoggiavano uno stato più forte e che incanalavano la rabbia di classe in una direzione riformista (“Gilets jaunes et les ‘leçons de l’histoire”, in Gilets Jaunes: Des clés pour comprendre; vedere anche Richard Greeman, “La protesta auto-organizzata del movimento dei Gilet Gialli denuncia la disuguaglianza e la vuotezza del regime francese”, New Politics Online, 3.12.2018).

Anziché balzare a conclusioni, questi sono temi da prendere in considerazione e discutere, considerato il mondo mutato del capitalismo neoliberista e, più di recente, la fioritura del populismo di destra e del neofascismo negli USA, in Francia, Italia, Germania, Ungheria e altrove.

Oggi, quando il discorso marxista e socialista non domina più la vita intellettuale francese o ha una parte importante nel discorso pubblico ed ha addirittura minore influenza fuori dai centri urbani, è sorprendente che un movimento sociale di questo decennio abbia adottato (e adattato) la narrazione che i cittadini ricevono nelle scuole pubbliche, che tuttora copre le origini rivoluzionarie della repubblica?

Ciò non rende in alcun modo i Gilet Gialli un movimento reazionario, come si può vedere dal suo contenuto e contesto sociale. Invece, è un movimento che manifesta un genere di rabbia ed energia rivoluzionaria che potrebbe realmente scuotere il paese, mentre al tempo stesso, come molte altre forze sociali oggi, rischia il pericolo della seduzione da parte dell’estrema destra.

Un tema di preoccupazione per il movimento dei Gilet Gialli è che il problema alla fine non è Macron e nemmeno il neoliberismo, bensì il capitalismo stesso. Questo è un sistema che ormai da alcuni decenni non è stato in grado di migliorare o almeno conservare il tenore di vita che le masse avevano ottenuto, in parte attraverso le loro lotte sindacali e sociali, negli anni dal 1945 al 1975. Ma a questo riguardo portavoce di sinistra come Jean-Luc Mélenchon di France Insoumise (o Bernie Sanders negli USA o Jeremy Corbyn nel Regno Unito) non offrono alcuna soluzione reale, salvo il miraggio di un ritorno a un capitalismo assistenziale keynesiano.

Se i Gilet Gialli hanno ottenuto qualcosa è stato denunciare Macron come ultima resistenza del neoliberismo, di un genere di liberalismo del “libero mercato” che rigetta il nazionalismo à la Trump e crede fortemente nell’Unione Europea.

La domanda che resta è se un movimento realmente rivoluzionario, basato su solide fondamenta teoriche, possa sorgere in Francia o altrove.

Ma i Gilet Gialli hanno almeno aperto una breccia, mostrando a sé stessi, al popolo francese e al mondo, che l’azione autonoma di masse di lavoratori non è solo l’arma più potente che storicamente abbiamo avuto, ma che quest’arma resta a disposizione, affilata come un coltello e pronta ad attaccare. La domanda è: in quale direzione e a quali fini?

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