L’evoluzione di Karl Marx (recensione del libro “Marx ai margini”, di Kevin B. Anderson)

Branko Milanovic

Summary: An Italian translation of “The Evolution of Karl Marx”, A review of Kevin B. Anderson’s “Marx at the Margins” by Branko Milanovic. The translation was originally posted here in La Fata Turchina. – Editors

L’obbiettivo di questo ben documentato e ben scritto libro è mostrare l’idea dell’evoluzione nel pensiero di Marx fuori dal punto di vista a senso unico dell’evoluzione storica, che va dal comunismo primitivo alle società basate sulla proprietà degli schiavi al feudalesimo e al capitalismo, e poi, nel futuro, al socialismo e al comunismo. Questo rappresentazione unilineare della storia che in Capitalism, alone ho chiamato il “sentiero occidentale allo sviluppo”, è il “pane quotidiano” del marxismo classico, per quanto sia basata, come molti hanno sostenuto, e come Kevin Anderson dimostra molto persuasivamente, su una generalizzazione della storia dell’Occidente europeo. Essa non può essere trapiantata dappertutto e neppure essere usata per spiegare il resto del mondo.

Di ciò Marx era consapevole e introdusse il suo famoso “modello asiatico di produzione” caratterizzato dalle proprietà in comune della terra (sia da parte di comunità consanguinee che non) e da una onnicomprensiva autorità gerarchica dominante. Essa era un prototipo di quelle che vennero successivamente definite dallo studioso marxista Karl Wittfogel come le società orientali o “idrauliche”. Il modo asiatico di produzione spesso non si colloca facilmente all’interno del modello marxista, giacché non si poteva dire granché della sua evoluzione: se tali società tendessero di per sé a diventare capitalistiche,  inclusa la creazione della proprietà privata della terra, oppure no. Anche meno si poteva dire delle loro prospettive socialiste: ma in tal modo, come poteva il “socialismo scientifico” sostenere la sua validità globale?

Anderson dimostra che nel suo primo periodo, che possiamo datare sulla fine degli anni ’50 dell’Ottocento, Marx era eurocentrico e che, in qualche passaggio nel quale discuteva del modo di produzione asiatico, considerava che esso fosse astorico e immutabile.

Le cose cominciarono a cambiare con gli anni ’60, sotto l’influenza degli sviluppi politici fuori dall’Europa. Essi portarono Marx a cominciare a studiare più seriamente le società non-europee (occidentali). La storia e la struttura di classe delle società agricole senza la proprietà privata della terra, le loro somiglianze e differenze con le società europee altrettanto primitive (del genere germanico e successivamente slavo). Gli eventi politici della fine degli anni 50 e dei primi anni ’60 dell’Ottocento che attrassero l’attenzione di Marx e sui quali egli scrisse prolificamente (principalmente come corrispondente del  New York Daily Tribune ed anche per il Die Presse a Vienna), furono la rivolta dei Taiping [1] in Cina (1850-64), la ribellione dei Sepoy in India [2] (1857), la fine della servitù in Russia (1861) e la Guerra Civile Americana (1861-65).

Anderson dedica un intero capitolo agli scritti di Marx e di Engels ed alla reciproca corrispondenza riguardante la Guerra Civile Americana. Come è ben noto, erano entrambi tenaci sostenitori dell’Unione e ammiratori di Lincoln – anche se Marx tendeva a criticarlo per la sua timidezza – ma questo non impedì loro di restare piacevolmente sorpresi quando Lincoln licenziò il Generale George McClellan ed emise il Proclama della Emancipazione. Engels, che aveva una considerevole formazione militare, era meno ottimista sulle possibilità di una completa vittoria militare nordista. Marx, che prestava maggiore attenzione alle forze sociali ed alla posizione delle varie classi e gruppi sociali sia al Sud che al Nord, non dubitò mai della vittoria nordista, neppure nei momenti nei quali l’Inghilterra fu vicina ad intervenire dalla parte del Sud.

La discussione sulla Guerra Civile Americana è importante perché ci permette di osservare come Marx rifletteva e considerava congiuntamente le questioni razziai e di classe. Forse questa citazione da un lettera a François Lafargue del 1866 (successivamente riportata letteralmente nel Capitale) sintetizza nel modo migliore la sua opinione: “il lavoro nei bianchi non può emanciparsi finché le persone di colore sono sottoposte ad un marchio”. Ma tutto questo ci allontana dall’argomento principale del libro, precisamente dalla transizione delle nazioni non-europee al capitalismo. In questo caso l’India e, in particolare, la Russia giocarono un ruolo fondamentale nella evoluzione del pensiero di Marx.

Nel periodo sino alla pubblicazione del Capitale (primo volume), Marx considerava la Russia, come facevano i liberali europei dell’epoca, come una potenza straordinariamente reazionaria, dittatoriale all’interno e sostenitrice delle forze antirivoluzionarie all’estero: “la Moscovia è stata allevata ed è cresciuta alla scuola terribile ed abietta della schiavitù mongola … Persino quando la Moscovia si emancipò, essa continuò a giocare il suo ruolo tradizionale dello schiavo [questa volta] come padrone” (pag. 48; scritto nel 1856). L’intervento russo per conto dell’Austria nel 1948-49, la creazione della Santa Alleanza, la Guerra di Crimea e la repressione sanguinosa di varie rivolte polacche, calzavano tutte perfettamente con tale immagine.

Il cambiamento nei punti di vista di Marx, e il maggiore interesse verso la Russia, cominciarono dopo la pubblicazione del Capitale quando la traduzione russa (che fu la prima traduzione del Capitale nel 1872) attirò non soltanto un interesse inatteso tra i rivoluzionari a Mosca e a San Pietroburgo, ma anche commenti molto acuti e pertinenti, citati per esteso da Marx nella sua introduzione alla seconda edizione tedesca del Capitale.

I nuovi interessi scoperti da Marx sulle cose russe, che lo portarono ad apprendere la lingua e a leggere un certo numero di libri russi nell’originale, ebbero un’altra importante conseguenza. I marxisti russi si posero la seguente domanda: il socialismo in Russia avrebbe potuto evitare lo sviluppo capitalistico è utilizzare la terra posseduta in comune (il russo mir) come base della futura socializzazione dei mezzi di produzione? La domanda era se la evoluzione “naturale” fosse sempre tale da evolvere dalla proprietà in comune della terra alla piccola impresa privata e poi finalmente al socialismo, oppure se la fase della piccola proprietà privata potesse semplicemente essere ‘saltata’?

Lo stesso problema venne affrontato altrove: in India e in Algeria. In entrambi i casi, sui quali Marx indirizzò la sua attenzione, le autorità coloniali incoraggiavano una privatizzazione della terra. Era il modo nel quale i coloni speravano di ottenere il possesso della terra. Se ogni parcella di terreno è posseduta in comune da un clan o da una famiglia allargata  e non può essere alienata, come è possibile per i coloni francesi o inglesi averne alcuna? Ma se essa viene parcellizzata in possedimenti privati, questi lotti privati possono essere più facilmente espropriati o acquistati da nuovi proprietari. Questa è la ragione per la quale i francesi erano inclini a rompere la proprietà dei clan in Algeria, e gli inglesi aiutarono gli zamindari [3] a diventare formalmente padroni delle terre (gli zamindari erano originariamente esattori di imposte che raccoglievano le tasse dai contadini e ne tenevano una parte, ma non possedevano la terra).

Dappertutto quindi, incluso il caso russo (le privatizzazioni delle terre dopo la fine della servitù), sembrava esserci un movimento verso la rottura delle proprietà in comune e l’introduzione del “capitalismo terriero”. Eppure, più Marx studiava le società nn europee, più diventava consapevole, sostiene Anderson, che la “distribuzione occidentale del potere” [4] non faceva necessariamente il loro caso:  non c’era alcun equivalente nel feudalesimo dell’Occidente europeo, e i futuro delle comuni rurali non era prestabilito. È in quel contesto che venne scritta la famosa lettera di Marx a Vera Zasulich, la rivoluzionaria russa. L’importanza della lettera di Marx non può essere esagerata. Ciò è dimostrato dal fatto che Marx, uno scrittore compulsivo e veloce, face non meno di cinque bozze del testo, ciascuna più dettagliata della breve lettera che alla fine spedì. Egli circoscrisse in modo esplicito la validità della sua analisi: “La ‘inevitabilità storica’ di questo indirizzo [ovvero, della sua analisi nel Capitale] è di conseguenza ristretta ai paesi dell’Europa occidentale”; e ammise la possibilità di un ‘salto’ dello stadio capitalistico: “La analisi del Capitale di conseguenza non fornisce alcuna ragione né a favore né contro la vitalità della comune russa. Ma lo studio particolare che ne ho fatto, inclusa una ricerca su materiale di fonte originaria, mi ha convinto che la comune in Russia è il fulcro per la rigenerazione sociale. Ma perché esse possa funzionare in tal modo, le dannose influenze che la assalgono da ogni parte [a significare più probabilmente la privatizzazione della terra] devono anzitutto essere eliminate, e devono essere garantite le condizioni normali di uno sviluppo spontaneo”.

Verso la fine della sua vita, in una evoluzione guidata in gran parte dagli eventi politici all’esterno dell’Europa e dalle ampie letture di Marx, egli giunse a credere che l’evoluzione che Engels aveva abbozzato nel 1848 fosse valida solo per l’Europa e forse confinata ad essa. È solo in questo contesto che possiamo comprendere l’apparentemente infecondo ultimo decennio della vita di Marx, quando, anziché completare i volumi del Capitale, spese una esagerata quantità di tempo a studiare le minuzie delle proprietà terriere russa e indiana, la geologia, le società precedenti all’uso della lingua scritta e cose simili.

David Ryazanov, il primo editore delle opere complete di Marx e di Engels, criticò Marx per questa apparente perdita di tempo: “Perché egli sprecò tanto tempo in questa sistematica, fondamentale sintesi [di vari libri] o spese tanto lavoro su un libro di base sulla geologia,  sintetizzandolo capitolo per capitolo. Nel 63° anno della sua vita – questa è una pedanteria imperdonabile” (pag. 249). Tuttavia, secondo Anderson, lo “ spreco” può essere capito se comprendiamo che Marx, insoddisfatto dalla teoria della “distribuzione occidentale del potere” e del suo non storico “modo di produzione asiatico”, stava cercando, seppure senza successo, di generalizzare i percorsi della transizione al capitalismo, guardando al mondo nella sua interezza, e non più all’Europa soltanto.


[1] La rivolta dei Taiping fu una devastante guerra civile che si combatté nell’Impero Qing tra il 1851 e il 1864. Essa identifica un movimento rivoluzionario cinese che interessò l’area di Nanchino, per poi espandersi nel sud dell’Impero cinese, tra il 1851, anno della fondazione del “Regno Celeste della Grande Pace” per opera dell’ispiratore della rivolta, Hong Xiuquan, e il 1864, anno della sua soppressione. Nata come reazione al regime corrotto dei QingManciù e subito degenerata in guerra civile, la rivolta fu repressa dall’esercito imperiale col supporto britannico nel 1864.

La setta degli “adoratori di Dio”, nata verso la metà degli anni ’40 del XIX secolo, fu fondata da Hong Xiuquan, che si autoproclamò fratello minore di Gesù Cristo e Tianwang (“re celeste”). Hong elaborò una sua dottrina religiosa cristiana con forti elementi sincretistici (fondeva elementi della tradizione cinese con contenuti tipici della morale cristiana), che predicava l’egualitarismo, il monoteismo e la volontà di riportare il prestigio e la sovranità della Cina sconvolta dopo le guerre dell’oppio. Tutto questo avrebbe dato il via al movimento taiping, che si costituì in organizzazioni di tipo paramilitare.

Nel 1851, con ormai migliaia di seguaci al loro seguito, gli adoratori di Dio proclamarono un proprio stato indipendente, il “Regno Celeste della Grande Pace” (Taiping tianguo), con capitale l’antica città imperiale di Nanchino (rinominata Capitale Celeste, Tianjing/天京). Nel 1853 i taiping attuarono una riforma agraria, prevedeva una ripartizione delle terre per nucleo familiare e teneva conto del numero dei membri componenti, incluse anche le donne. I taiping instaurarono un sistema di vita comune e di comunione di tutti beni, la popolazione venne organizzata in gruppi di venticinque famiglie (ku), una struttura di base che aveva nello stesso tempo competenze amministrative, militari, religiose e di produzione. Il commercio privato venne abolito. I taiping potevano così contare su un vero e proprio stato indipendente, in grado di rivaleggiare con l’impero Manchu e dotato di un proprio esercito indipendente. Fallito, nel 1855, il tentativo di conquistare Pechino, la guerra civile si protrasse per un altro decennio. I tentativi di radicale riforma sociale ed il sostanziale esproprio dei proprietari terrieri crearono all’interno dello stato taiping numerosi dissidenti. Fu proprio l’erosione del consenso sociale che facilitò la repressione. Le truppe imperiali giunsero alla vittoria nel 1864 quando, finita la seconda guerra dell’oppio, britannici e francesi portarono il loro aiuto a favore del governo di Pechino. Wikipedia.

[2] Nel 1857 la ribellione dei sepoy, nota come ammutinamento indiano, scoppiò a causa della distribuzione di cartucce per fucili ingrassate con grasso di maiale o di bue, il cui involucro era da strappare con i denti. Ciò violava le regole della religione dei sepoy, che inoltre interpretavano la cosa come un tentativo di conversione coatta al cristianesimo. Dopo alcuni episodi minori di ribellione, tra cui il famoso ammutinamento del sepoy Mangal Pandey, la rivolta ebbe inizio a maggio 1857; i reparti di sepoy e sowar stanziati a Meerut si ammutinarono in massa, liberarono i commilitoni rinchiusi nelle carceri della città e uccisero molti ufficiali e civili britannici. Subito dopo i sepoy insorti marciarono direttamente su Delhi dove favorirono la ribellione della guarnigione della città che si unì ai ribelli dopo aver massacrato molti europei civili e militari. Alla rivolta dei sepoy si unirono ben presto anche Principi, proprietari terrieri e contadini; l’ultimo Moghul, Bahadur Shah II, fu proclamato a Delhi imperatore dell’India.

Nelle settimane successive praticamente tutti i reggimenti sepoy e sowar dell’Armata del Bengala si ammutinarono; su 139.000 soldati, solo circa 7.000 rimasero fedeli alla Compagnia delle Indie orientali. Le principali regioni interessate dalla rivolta delle guarnigioni dei sepoy furono l’Awadh, il Rohilkhand e il Bihar, mentre rimasero sotto il controllo britannico il Bengala, centro del potere della Compagnia delle Indie, e soprattutto il Punjab. Delhi e la postazione inglese di Lucknow vennero velocemente riconquistate. Wikipedia.

[3] Gli zamindari (letteralmente “proprietario terriero”, dal sostantivo persiano زمین, Zamīn derivante dal sanscrito bhumi, “terra”, con l’aggiunta del comune suffisso دار -dār, “titolare”) erano esponenti di una aristocrazia ereditaria indiana che entrò in possesso di numerose estensioni di terra, nonché dei contadini che vi lavoravano (dai quali questi nobili si riservarono il diritto di trarre le imposte), ai tempi della dominazione inglese del subcontinente indiano. Spesso questa classe, provenendo anche da rami cadetti di antiche famiglie reali, si fregiò di titoli regali quali: Maharaja (grande re), Raja (re), Nawab (signore), Mirza (principe), Chowdhury (signore) ed altri, tipici dei sovrani principeschi sotto protettorato britannico. Anche se gli zamindari sono stati considerati equivalenti a signori e baroni, in alcuni casi si sono considerati come indipendenti, principi sovrani. Wikipedia.

[4] Tiro un po’ ad indovinare, perché acronimi con WPD ce ne sono un centinaio. Questo pare decisamente il più verosimile.

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